Correva la mattina del 17 Aprile 1975. Per gli italiani era una giornata come le altre, tra studenti che prendevano appunti, adulti che lavoravano e anziani che passeggiavano per le strade. Non c’era nulla di speciale. Per gli abitanti di Phnom Penh, invece, così come per tutti i cambogiani, quello era l’inizio di una nuova era. Alcuni la temevano, altri l’aspettavano, altri le erano indifferenti, ma tutti erano d’accordo che da quel momento molte cose sarebbero cambiate. In quella data infatti, le milizie del Partito Comunista di Kampuchea, conosciute anche come Khmer Rouge (Khmer Rossi), originariamente un nomignolo dispregiativo attribuito loro dal re e politico cambogiano Norodom Sihanouk, entrarono nella capitale cambogiana. Il governo della Repubblica Khmer, stato filoamericano nato nel 1970 quando il primo ministro Lon Nol depose SIhanouk e proclamò la repubblica, fu costretto alla fuga. Terminava così una guerra civile durata quasi un decennio, dal 1967 al 1975, o almeno così sembrava. Molti cambogiani celebravano il ritorno della pace e della stabilità politica, ma non potevano immaginare l’incubo che stava per iniziare. Immediatamente, le forze dei Khmer Rouge ordinarono un’evacuazione generale della capitale, utilizzando come pretesto un supposto bombardamento americano imminente. I capi dell’Angkar, letteralmente “l’organizzazione”, termine con cui fu conosciuto il partito durante il proprio regno, proclamarono quella data l’inizio dell’anno zero, che avrebbe dovuto segnare la rinascita della Cambogia dopo un secolo segnato da colonialismo francese, occupazione giapponese, un regime autoritario guidato da Sihanouk, un altro regime autoritario guidato da Lon Nol, e la guerra civile appena finita. Quella data si rivelò però l’inizio di un’autentica apocalisse.
Quattro anni di armageddon
Il capo dell’Angkar si chiamava Saloth Sâr, e si faceva chiamare dal popolo e dagli altri esponenti del partito con il titolo di “fratello numero 1”, ma il mondo lo conosce con il suo famoso pseudonimo, Pol Pot. Sotto di lui c’erano il “fratello numero 2”, Nuon Chea, il “fratello numero 3”, Ieng Sary, e così via, fino ad arrivare alla base della piramide. La loro ideologia era un misto tra una forma estremamente autoritaria di comunismo, un estremo nazionalismo khmer, caratterizzato da una grande nostalgia per il defunto Impero Khmer (802-1431), e un’idealizzazione della vita rurale a discapito di quella urbana. Per i Khmer Rouge la Cambogia, da loro rinominata Kampuchea Democratica, doveva ripartire da zero, tornare ad un idealizzato stato agrario per poi ricominciare il loro sviluppo priva di influenze straniere e interessi egoistici. Per questo la società fu completamente rivoluzionata: le città furono evacuate, così come le fabbriche, e quasi tutta la popolazione fu mandata a vivere e lavorare in comuni agricole. Uomini, donne e bambini venivano separati: i primi due dovevano lavorare seguendo una settimana lavorativa diversa, nella quale avevano diritto ad un solo giorno di riposo per ogni nove giorni consecutivi di lavoro, mentre i terzi venivano indottrinati nell’ideologia di partito. Il denaro fu abolito, e secondo i capi del partito tutti i beni sarebbero stati distribuiti in base alle necessità, ma la situazione alimentare era pessima e la popolazione estremamente denutrita, mentre per perseguire una politica autarchica estrema il governo si rifiutava di importare i medicinali, e così alla popolazione veniva consigliato di affidarsi alla medicina tradizionale cambogiana, e le persone morivano di malattie facilmente curabili, mentre i capi del partito andavano a farsi curare all’estero, specialmente in Cina, alleato principale del regime. Per quanto riguarda la religione, Cristianesimo ed Islam, considerati come reliquie dell’imperialismo straniero, furono completamente vietati, mentre i monaci buddhisti autoctoni furono duramente perseguitati. Anche le minoranze etniche, come Thailandesi, Cinesi, Cham e Vietnamiti, furono vittime del regime, che perseguiva una politica estremamente nazionalista che vedeva la Cambogia come lo stato dei Khmer, etnia maggioritaria, e non lasciava spazio a minoranze e differenze. Ogni opposizione veniva duramente repressa, tanto che si narra di persone perseguitate solo perché indossavano gli occhiali, considerati simbolo degli intellettuali urbani, o conoscevano una lingua straniera. Il risultato fu un vero e proprio genocidio. Le vittime (inclusi tutti i gruppi precedentemente citati) venivano arrestate e poi costrette a subire lavori forzati, torture, umiliazioni, e infine la morte, dopo la quale i loro corpi venivano gettati in fosse comuni. Questo accadeva anche per il minimo segnale che poteva venire interpretato come di dissenso. Le persone erano incoraggiate a spiarsi segretamente tra loro e segnalare ogni sospetto ai membri del partito, che spesso provvedevano a mandare la vittima in campi di rieducazione da cui molti non uscivano vivi, come la famosa prigione di sicurezza 21, più comunemente chiamata S21, oggi sede di un museo sul genocidio cambogiano.

Fine di un incubo
Il regno del terrore di Pol Pot e dei suoi terminò tra la fine del 1978 e l’inizio del 1979, quando dopo una serie di scontri al confine, l’esercito del Vietnam,, ex alleato del regime, invase la Cambogia, supportato da un gruppo di profughi cambogiani. Phnom Penh cadde il 9 Gennaio 1979, ma la guerra durò per altri due decenni. Ufficialmente la pace tra le varie fazioni fu raggiunta nel 1993, ma i Khmer Rouge si ritirarono nella giungla e continuarono l’insurrezione fino al 1998, anno in cui morì lo stesso Pol Pot, che poco tempo prima era stato processato dai suoi stessi alleati e condannato all’ergastolo. Qualche mese prima, nella sua ultima intervista, rilasciata al giornalista americano Nate Thayer, non mostrò alcun segno di pentimento. Degli altri esponenti del partito, solo pochi furono processati, di cui una buona parte morì poco dopo la condanna oppure prima che il processo si concludesse. Le conseguenze del genocidio furono terribili: le stime vanno da 1.5 a 2 milioni di morti nel periodo che va dal 1975 al 1979, corrispondenti a circa il 25% della popolazione cambogiana dell’epoca. La Cambogia ancora oggi stenta a fare i conti con il proprio passato.
Per non dimenticare
Tra qualche giorno sarà il cinquantesimo anniversario della caduta di Phnom Penh. Cinquant’anni non sono tanti. Basti pensare che le persone nate in quell’epoca non sono ancora arrivate alla pensione. Nonostante i dati e gli eventi siano disponibili a tutti con estrema facilità, e nonostante la vicinanza storica degli eventi, la maggioranza della popolazione mondiale non ha alcuna conoscenza di questa tragedia. Nei media non se ne parla, nelle scuole nemmeno, e alla maggioranza delle persone il nome Pol Pot non dice niente. Diciamo che si studia la storia per non commettere gli stessi errori, che si ricordano le tragedie per non dimenticare, ma la maggior parte di esse sono ignote alle masse, e anche quelle conosciute non sono trattate con la giusta serietà, ma ormai diventano spesso semplici temi di dibattito politico, strumenti di propaganda, e c’è addirittura chi nega che siano mai accadute. Intanto, l’umanità continua a cadere negli stessi errori: guerre, massacri, totalitarismi, odio per il diverso, retoriche pericolose. E le persone pensano tra sé e sé: “Da noi non succederà mai. In quest’epoca poi,…, “oppure “La colpa è solo di questo gruppo di persone, oppure di questa ideologia. Sono tutte così. Quest’altro gruppo di persone o quest’altra ideologia invece non lo avrebbero mai fatto, perché loro sono tutte buone.”, e così si ricade negli stessi errori e un animale che esalta la propria intelligenza si rivela più stupido di quelli che disprezza, e dopo l’ennesima tragedia si chiede per l’ennesima volta: “Come è potuto succedere?”. Qual è la soluzione, quindi? Questo non spetta a me dirlo. Io mi limito a riportare i fatti. Ma vorrei porre una domanda a tutti i lettori: Quanto conoscete gli errori commessi dalla nostra specie nel corso della storia? Se la risposta è molto, cosa avete imparato da essi? Se la risposta è poco, invece, perché non li conoscete? Non ho interesse a giudicarvi, né pretendo che pubblichiate le vostre risposte. Voglio solo che riflettiate.
Francesco Barbato 4B