
La storia di Artemisia Gentileschi
“Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi […]”
Ecco le parole della stessa pittrice, in merito alla sua vicenda, tratte dal racconto della sua storia. Artemisia fu una pittrice italiana di formazione caravaggesca di fine Cinquecento inizio Seicento. Per l’epoca fu già un progresso che Artemisia avesse accesso all’istruzione e si riuscisse ad “affermare” come pittrice, grazie al padre Orazio Gentileschi.
Lo stupro di Artemisia fu taciuto per molto tempo;:quando finalmente Gentileschi decise di sporgere denuncia un anno dopo l’accaduto, l’evento suscitò molte dicerie e chiacchere, tanto che in più occasioni il processo si trasformò in uno strumento di diffamazione nei confronti di Artemisia che, fu vista con sospetto per aver taciuto per tanto tempo.
Lo stupro di Agostino Tassi su Artemisia Gentileschi del 1611 è ampiamente documentato dalle testimonianze raccolte durante il processo dell’anno successivo, iniziato nel marzo 1612 e durato sette mesi. Sotto giuramento, Artemisia sostenne di aver subito una violenza sessuale da parte di Tassi il 6 maggio 1611. In uno dei tanti interrogatori alla quale la pittrice fu sottoposta, Artemisia raccontò delle abituali visite di Tassi nella sua casa e della sospetta amicizia che egli aveva stretto con Tuzia, coinquilina del padre Orazio. Secondo il suo racconto, Agostino l’avrebbe a lungo corteggiata con insistenza, seguendo dei consigli dell’amico Cosimo Quorli e di Tuzia.
La difesa del Tassi insinuò una promiscuità della pittrice, accusa a cui Artemisia ribatté con sdegno, affermò infatti di essere vergine al momento della violenza subita da Tassi. Artemisia fu sottoposta alla «tortura della Sibilla», così detta perché utilizzata per ottenere la verità.
La sua affermazione di essere vergine fu comunque smentita dalla visita ginecologica di due ostetriche ordinata dal giudice: non era più vergine da tempo. L’accusa approfittò della nuova prova per riprendere l’accusa di promiscuità sessuale della giovane pittrice, che a sua volta si difese con determinazione accusando di aver subito ripetute violenze. Tuzia, inquilina dei Gentileschi, portò una testimonianza sorprendentemente svantaggiosa per Artemisia, delineando i liberi costumi della pittrice e contrapponendovi il comportamento dignitoso del Tassi. Artemisia accusò il colpo: Tuzia era per lei un riferimento principale, visto che fu orfana di madre e l’unica femmina tra i quattro figli. Ciò chiarisce perché in molti quadri, creati immediatamente dopo il processo, la pittrice includa spesso il tema della solidarietà femminile. Dopo lo stupro, Tassi promise ad Artemisia di sposarla, e quest’ultima fu obbligata a credergli, anche perchè non aveva molte alternative: il matrimonio era l’unico mezzo per riabilitarla nella società.
Nei mesi immediatamente dopo lo stupro, il pittore evitò meticolosamente di farsi vedere in pubblico con Artemisia, e proseguì gli incontri amorosi nell’intimità degli appartamenti della pittrice, complice il silenzio di Tuzia.
Elizabeth Cohen ha condotto uno studio approfondito sul tortuoso sistema di “codici d’onore” vigente a Roma agli inizi del Seicento: Artemisia fu violentata all’interno della casa di famiglia, fattore che aggravava la situazione e comprometteva ancora di più l’onore di Gentileschi. Secondo la studiosa, il reato di violenza sessuale nella prima età moderna in Italia non era percepito come aggressione alla donna.
Ci furono molti interrogatori, e anche testimonianze che sono presenti nella storia dello stupro di Artemisia Gentileschi,. Il processo contro Agostino Tassi si concluse il 27 novembre 1612 con la condanna di Tassi per la deflorazione di Artemisia Gentileschi, la corruzione dei testimoni e la diffamazione di Orazio Gentileschi. Il giudice Gerolamo Felice lo obbligò a scegliere: cinque anni di lavori forzati o l’esilio da Roma. Il giorno dopo Tassi scelse l’esilio, con l’aiuto del capitano Pietro Paolo Arcamanni che garantì per lui. La sentenza fu depositata negli Archivi Vaticani.

Il coraggio di denunciare
Bisogna necessariamente sottolineare il coraggio e la determinazione che ebbe Artemisia Gentileschi nel denunciare il suo stupro. Per l’epoca già era un evento raro che una donna avesse potuto formarsi e diventare una pittrice; ma che addirittura riuscisse a vincere una causa non solo contro un uomo, ma proprio contro la società che la circondava, e ciò per l’epoca di allora era un evento unico ed eccezionale. Infatti dalla storia della pittrice si può capire che la società non era per niente dalla sua parte, anzi la reputava un’opportunista solo perché aveva denunciato un anno dopo l’accaduto. Si diffusero molto velocemente nella comunità l’idea che Artemisia fosse una donna dai facili costumi, che voleva solo sottrarre del denaro al povero Tassi. Nessuno disse nulla contro Tassi, che per di più era già stato in passato sottoposto a processo per incesto con la cognata, ma nonostante ciò nessuno mai dubitò dei modi di comportarsi che assunse nei confronti della pittrice.
Confronto con la società contemporanea

Siamo veramente libere di denunciare nel XXI secolo? Abbiamo lo stesso coraggio che ebbe Artemisia di denunciare?
Sono delle domande alla quale è difficile trovare una risposta,: la storia di Artemisia dovrebbe testimoniare un modello di donna che nonostante le avversità e gli ostacoli che lei si presentarono, andò comunque dritta fino in fondo per la sua strada, per ottenere un minimo di giustizia, di riconoscimento da quella società che verso le donne non provava un minimo di rispetto.
Ad oggi fortunatamente esistono vari modi per denunciare degli abusi o delle violenze, come ad esempio il numero nazionale contro la violenza fisica, psicologica o di qualunque altro genere sulle donne, il 1522. Grazie all’aiuto delle operatrici da tale numero le vittime che denunciano possono scegliere il percorso che trovano più adatto per uscire dal loro incubo: ci sono varie associazioni che aiutano le donne a reinserirsi nella società, a reagire e metabolizzare ciò che gli è successo, ma soprattutto riniziano a scoprire il loro valore che qualcuno ha calpestato senza rispetto. Ma quante donne lo usano liberamente?
Dal rapporto Istat sull’utilizzo del numero contro la violenza sulle donne emerge che, dalle testimonianze fornite dalle operatrici, la maggior parte delle vittime non denuncia la violenza subita alle autorità competenti. Solo il 15,8% nei tre trimestri del 2023 ha infatti denunciato la violenza subita (1.311 vittime).
I dati mettono in luce una persistente resistenza a denunciare: il 59,4% delle vittime infatti dichiara di non denunciare anche se la violenza subita dura da anni. Le donne spesso non denunciano perché hanno paura che il loro violentatore lo scopra, e possa fare del male a loro ma anche ai loro cari. Hanno inoltre paura di non essere credute e che quindi poi dovrebbero tornare a casa con il loro aguzzino. Altre volte non denunciano perché pensano che la violenza che subiscono non sia un reato, che sia giusto così o che non possa cambiare nulla e quindi di conseguenza pensano che denunciare non possa cambiare nulla.
Purtroppo è capitato varie volte che donne che subivano violenze fisiche, domestiche o psicologiche abbiano avuto la forza di denunciare, ma nel mentre che lo Stato o la società reagiva, loro non c’erano già più.
Ecco altri dati statistici che confermano che nel caso in cui la donna abbia denunciato, alla denuncia siano seguite accuse nel 29,7% dei casi delle violenze perpetrate da autori diversi dai partner; nel 19,8% dei casi sono state adottate misure cautelari che sono state poi violate per il 31,5% delle volte. Mentre per le violenze subite da partner, il dato delle accuse è notevolmente più basso (2,3%), mentre sono maggiori le percentuali inerenti alle misure cautelari adottate (34,5%), che sono state violate il 9,1% delle volte.
Alle volte la storia non insegna, frase banale ma crudelmente vera, poiché la storia di Artemisia, probabilmente non fu la prima e, come ben sappiamo, non è stata neanche l’ultima. Avere paura, come si può associare tale sentimento, di camminare da sole in una strada o al pensiero di non essere abbastanza al sicuro, oggi giorno da queste azioni quotidiane iniziano alle volte i peggiori incubi di alcune donne.
Giorgia Alimandi 4U