Da dove nacque la doppia faccia del nostro Stato
Ad aprile del 2021, il professore di storia contemporanea Salvatore Lupo ha tenuto per Mondadori una lezione dedicata alla spiegazione della storia propriamente detta della Mafia, un tratto caratterizzante dello stato Italiano sin dalle sue origini.

“La Mafia non esiste”
Si può parlare delle prime manifestazioni mafiose già durante la Prima Guerra d’Indipendenza Italiana: il nuovo governo, trovandosi di fronte ai numerosi debiti dello Stato e a un’organizzazione militare quasi inesistente, decide di risanare il bilancio economico attraverso una politica fiscale estrema che vede l’aggiunta di una tassa sul pane (tassa sul macinato) e dell’obbligo del servizio militare.
Questo porta nel meridione a delle violentissime ribellioni e allo sviluppo del brigantaggio, costituito in origine dai dissidenti politici e che poi ha costituito un punto di convergenza per la delinquenza organizzata.
Tali briganti facevano parte di gruppi locali che si concentrano soprattutto nella Sicilia centroccidentale ed altri ancora dislocati sull’asse dell’atlantico che li collegava agli Stati Uniti, in una zona limitata del nord-est. Questo ponte faceva sì che potessero organizzarsi gerarchicamente e agire in massa.
Dal 1861 al 1975, il potere della mafia è sempre rimasto sotterraneo, insito nell’aspetto sociale, economico e politico delle istituzioni legalmente riconosciute: avendo le sembianze di una struttura vicaria dell’ordine pubblico, attraverso il clima di violenza e di concorrenza che colorava le relazioni tra i vari gruppi locali che ne facevano parte, aiutava lo stato a tenere bassi i livelli di criminalità.
Questo fattore porta non solo il governo italiano, ma anche molte altre realtà, ad assumere un atteggiamento negazionista nei confronti delle organizzazioni mafiose: si afferma, sostanzialmente, che la mafia in fin dei conti era inesistente, che se esisteva non era una forma di criminalità chissà quanto pericolosa o che, in extremis, si presentava come un costume tipicamente siciliano più che deteriorato e per tale motivo innocuo.
Ad oggi noi sappiamo che la sua natura era del tutto complementare a quella dello stato e proprio per questo motivo era intrinseca nella realtà italiana, fattore che la rende più di una semplice forma di criminalità.
Come spiega il professor Lupo, la pericolosità della mafia non si vedeva anche perché con il suo compito riusciva ad entrare in relazioni legali, e questi contatti le hanno fatto maturare un’ideologia mediatoria, protettiva e tradizionale molto simile a quella dello stato.

Il pensiero comune
L’idea moderna della mafia è completamente diversa: viene vista come un’organizzazione criminale aggressiva e feroce che, con una sequenza di spargimenti di sangue, si mostra alla luce del sole o per suoi interessi particolari o per l’esistenza di un avversario che la definisce criminale per la propria attitudine .
Tuttavia, come ci spiega Lupo, proprio grazie a questa differenza si può capire come mai prima non si poteva parlare di mafia in sé: il concetto di “stato moderno” ancora non esisteva, di conseguenza nemmeno i principi moderni del diritto che ne regolano il governo, quindi i presupposti per andare contro l’uguaglianza giuridica.
Questo spiega anche come faccia la mafia a prosperare in quei territori che, memori del loro vissuto traumatico, hanno un’idea di stato moderno ancora abbastanza debole.

Il rapporto con lo Stato: 1920-1930
Alla luce di quanto detto, non bisogna credere però che prima degli anni Settanta i rapporti tra la mafia e lo stato siano sempre stati caratterizzati dalla tolleranza: si sono alternate stagioni di opposta natura, fasi di collaborazione e di conflitto.
Dal punto di vista teorico, il giurista Santi Romano nel 1918 formula la teoria della pluralità degli ordinamenti politici, secondo cui:
“nonostante la creazione di un ordinamento che vuole essere inevitabilmente superiore, sopravvivono altri ordinamenti nella società. In merito a ciò lo stato si impegna a capire quali gli sono ostili e quali tollerabili perché non minano la salute della comunità stessa”.
Nelle fasi di conflitto, la svolta decisiva si colloca a cavallo degli anni Venti e Trenta del Novecento.
Visto il tentativo del Fascismo di limitare, se non annullare, il potere dei mafiosi, viene eletto come prefetto il signor Cesare Mori, che decide di operare soprattutto nel paese montagnolo di Gangi: si tratta di una vera e propria operazione militare che si risolse tuttavia in un nulla di fatto, motivo per cuinegli anni Trenta poliziotti dell’ispettorato decidono di indagare su queste organizzazioni.


Indubbiamente, tutti questi eventi indeboliscono i gruppi mafiosi italiani, che comunque dimostrano di avere delle riserve: grazie ai cugini americani e ai molteplici agganci con altre organizzazioni (spesso narcotrafficanti), riescono a rafforzarsi tra gli anni Quaranta e Sessanta del Novecento.
L’armistizio con lo Stato si verifica nel 1947, quando gli investigatori, svezzati dalla cultura fascista, consegnano da morto alla Mafia il bandito Salvatore Giuliano, che lavorava per lei e aveva massacrato i lavoratori a Portella della Ginestra (Palermo).


Le stragi di Capaci e di Via d’Amelio
Nonostante una serie di alti e bassi, arriviamo agli anni Novanta , tristemente famosi per l’attentato che diede modo alla Mafia di sbarazzarsi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino in due attentati a breve distanza tra loro, con cui si diede inizio alla Strategia Stragista.
Il 23 maggio del 1992 avviene la Strage di Capaci, in cui rimangono uccisi il giudice Giovanni Falcone, la magistrata Francesca Morvillo (sua moglie) e la loro scorta. La mafia li fa saltare in aria utilizzando 500 chili di tritolo e con questo gesto dichiara guerra allo Stato.
In quel tempo, i gruppi mafiosi si facevano la guerra per il dominio della zona siciliana e il controllo degli affari illeciti e, a fine gennaio del ‘92, dalla cassazione nell’aula bunker di Palermo, viene emanata la fatidica sentenza del Maxiprocesso, che si conclude dopo 6 anni con 19 ergastoli e 2.265 anni di carcere per tutti quei criminali affiliati allaMafia.
A quel punto, i gruppi criminali sapevano di non avere più lo stato dalla propria parte e, qualche tempo dopo, prima di morire nella strage di via d’Amelio il 19 luglio del 1992, Paolo Borsellino, giudice amico e strettissimo collaboratore di Giovanni Falcone, ricordando la morte di quest’ultimo in un’intervista disse:
“La morte di Falcone ovviamente mi ha lasciato in uno stato di grave situazione psicologica per il dolore provato, in quanto non si tratta soltanto di un collega/compagno di lavoro ma anche del più vecchio dei miei amici che…è venuto meno. […]
Ho temuto, nell’immediatezza della morte di Falcone, una drastica perdita di entusiasmo nel lavoro che faccio. Fortunatamente, se non dico di averlo ritrovato, ho almeno ritrovato la rabbia per continuarlo a fare.”


La Trattativa Stato-Mafia
Nella confusione portata da queste tragedie, lo Stato decide di attivarsi concretamente e dà il via alla trattativa Stato-mafia, una contrattazione segreta/nascosta tra le istituzioni italiane e le associazioni mafiose. Il suo scopo principale è quello di cessare le stragi compiute dalla mafia concedendole favori provenienti dalle istituzioni.
Nel maggio 1996 si chiude la stagione in cui Mafia e Stato si spalleggiano: nascono così i pool antimafia, organizzazioni collegiali che si occupano di indagare i casi della mafia italiana, e la Commissione Parlamentare Antimafia, che si compone di 25 deputati e 25 senatori, di cui il presidente è Nicola Morra.
ll 20 aprile 2018, alla Corte d’Assise di Palermo, viene letta la sentenza definitiva del processo per la trattativa Stato-Mafia, che in 5.252 pagine riporta ogni accordo, intrigo e macchinazione avvenuta con la Mafia nel biennio 1992-1993 per iniziativa degli uomini dello Stato.
Si chiude in questo modo, a livello storico, il racconto della nascita di uno dei sassolini più grandi che infastidiscono le scarpe del nostro stivale, un ostacolo che sembra insormontabile ma che attraverso il ricordo può instillare in noi nuovi cittadini la criticità, la consapevolezza e soprattutto il coraggio necessari a non soccombere come vinti in una battaglia neanche cominciata.
Eleonora Moretti, 4 S.