Social network e salute mentale: una generazione sotto pressione

Da semplici strumenti di connessione, i social network sono diventati veri e propri ambienti di vita
quotidiana. Instagram, TikTok, Snapchat, e più recentemente BeReal, scandiscono la giornata di
milioni di persone, soprattutto adolescenti. Per molti giovani, la linea tra ciò che accade online e
ciò che vivono nel mondo reale si è ormai dissolta. Le “storie” non sono più solo contenuti
effimeri, ma finestre su un’esistenza idealizzata, che spesso diventa termine di paragone, fonte di
ansia e insicurezza. Non sono più solo strumenti per comunicare, ma veri e propri spazi dove
costruiamo e dove mettiamo in scena la nostra identità. Questo vale soprattutto per noi adolescenti, che ogni giorno passiamo ore a scrollare tra una quantità infinita di contenuti che ci fa dimenticare di dove siamo finché non alziamo gli occhi dallo schermo, perdendoci tra post, tik tok e like.


Un recente rapporto del Centro Nazionale per la Salute Adolescenziale (CNSA) evidenzia un dato
allarmante: il 74% dei ragazzi tra i 13 e i 19 anni dichiara di sentirsi più ansioso e insicuro dopo
aver trascorso del tempo sui social. Il 52% afferma di confrontarsi negativamente con i corpi e le
vite altrui, riportando effetti diretti sull’autostima.


“Vedo le storie degli altri e mi sento indietro, come se non stessi vivendo abbastanza,” racconta
Marta, 17 anni, studentessa milanese. Un sentimento condiviso da molti, alimentato da contenuti
patinati e selezionati, che dipingono una realtà distorta e inaccessibile. La sensazione di
inadeguatezza si insinua anche tra i più sicuri, creando un ciclo continuo di confronto, frustrazione
e ricerca di approvazione. A risentirne non è solo l’autostima, ma anche la personale idea di
felicità, che muta pericolosamente, fino a diventare inarrivabile.
Al proposito mi viene in mente l’“Elogio dell’imperfezione” di Rita Levi Montalcini, che invitava a
riconoscere e ad accogliere l’imperfezione come ricchezza, questo pensiero ad oggi è più attuale
che mai. “Meglio aggiungere vita ai giorni che non giorni alla vita,” scriveva. Ma nei social, il tempo
sembra dilatarsi e svuotarsi, spinto dal bisogno costante di apparire.
Per approfondire l’impatto psicologico di questa esposizione, ho preso in considerazione
l’intervista alla dottoressa Elena Rizzi, psicologa e psicoterapeuta specializzata in età evolutiva:
Dottoressa, quanto influiscono i social sulla salute mentale dei giovani?
“In modo profondo. Sempre più adolescenti mi parlano di ansia sociale, disturbi del sonno e di un
senso di inadeguatezza. I social costruiscono ad un’identità fragile, basata su like, visualizzazioni, e
sull’approvazione esterna. È una dipendenza sottile, ma potente.”
Cosa si può fare per proteggere i ragazzi?
“Serve educazione digitale. A scuola andrebbe introdotto un pensiero critico sull’uso dei social,
mentre in famiglia è fondamentale incoraggiare momenti di disconnessione reale. Le relazioni
autentiche, offline, sono il vero nutrimento per la nostra psiche.”

La scienza supporta questa visione: uno studio dell’Università di Cambridge pubblicato nel 2024 ha
dimostrato che limitare l’uso dei social a meno di 60 minuti al giorno migliora l’umore, la
concentrazione e la qualità del sonno in appena tre mesi.
Alcune piattaforme stanno iniziando a rispondere: TikTok e Instagram offrono ora strumenti per
monitorare e limitare il tempo d’uso, oltre alla possibilità di nascondere i like, segno che anche chi
si occupa delle piattaforme si stia rendendo conto dei problemi che causano. Parallelamente,
stanno emergendo community online dedicate al benessere mentale.

Ma il cambiamento reale richiede consapevolezza collettiva. Come ha scritto Zygmunt Bauman,
viviamo in una “modernità liquida” dove tutto è fluido, instabile, anche i rapporti umani. I social,
specchio di questa condizione, rischiano di rendere ancora più fragili le fondamenta emotive delle
nuove generazioni.

La sfida è aperta: come aiutare i giovani a vivere i social come strumenti e non come gabbie
invisibili?

Forse la risposta sta in un nuovo patto educativo tra genitori, insegnanti, influencer e ragazzi
stessi. Chi crea contenuti dovrebbe sentirsi responsabile del proprio impatto, promuovendo
autenticità anziché perfezione tossica.
È tempo di reimparare a guardarci negli occhi, e non solo attraverso uno schermo. Perché, come
scrisse David Foster Wallace, “il vero valore dell’educazione consiste nel saper decidere
consapevolmente che cosa ha significato e cosa no, e in che modo assegnare significato a ciò che
ci circonda.” La vera libertà sta nella capacità di scegliere a cosa dare significato.
Il pericolo più grande è non accorgerci del pericolo stesso, passando troppe ore davanti allo
schermo il rischio è quello dell’isolamento, in casi estremi può portare al fenomeno
dell’hikikomori, che colpisce anche in Italia e porta chi ne è affetto a smettere di uscire e di vedere
qualunque persona, estraniandosi completamente dal mondo.


I social in sé non devono essere demonizzati, vedendoli come dei nemici, perché effettivamente
collegano le persone, ma dovremmo smettere di viverli come una competizione. Forse la vera
rivoluzione è tornare ad essere autentici.

Aurora Capozzo 5V

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